Meteora a New York - Short Erotic Novel (in Italian) by claudiop63

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Meteora a New York - Short Erotic Novel (in Italian)
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*Sabato*

Due giorni fa: Capri. Vento azzurro. Spiaggia. La sua pelle, dorata e accogliente.  

Oggi, sono sulla luna. Manhattan, Lower East Side.
Arrivato ieri, oggi mi sveglio in un appartamento condiviso con infiniti sconosciuti. Rumori di sesso altrui, sciaquone, musica a palla. Caldo, e odore di fritti ignobili.

Rumori dalla strada. Alieni ma noti, perché New York è l’unica città al mondo in cui alla prima visita tutti provano un senso di déjà vu. Il merito (?) e’ del bombardamento televisivo a cui siamo stati sottoposti fin dalla più tenera età. Tutta la panoplia dei suoi rumori tecnologici, dalle sirene della polizia alla buffa tonalità del clacson del taxi, ci e’ stata instillata nelle vene da anni e anni di telefilm polizieschi. 

Il sesso altrui mi annoia e mi fa sentire solo, quindi scendo in strada. 
Vedo solo animali di altre specie. Sporchi e strani. 
Caldo. Piedi nudi. Piedi sporchi. Nessuno con cui immagini poter parlare. O scopare. 
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Come un automa, mi dirigo verso l’università. Sicuramente ci sarà qualcuno con cui comunicare. Meglio intristirsi a parlare di economia con maschi dagli occhiali spessi, che agonizzare solo sulla luna. 
Mi va di lusso: il primo collega che incontro è di aspetto gradevole (sebbene maschio), connazionale e sorridente. I suoi occhiali sono leggeri. 

Emilio cerca subito di convincermi che non sono la reincarnazione di Blade Runner, bensì un povero napoletano che per la prima volta si sente un provinciale, al cospetto della Grande Mela. Parlando con lui diventa chiaro che lui la Mela la apprezza e la morde tutti i giorni. Emilio, ancora più provinciale di me, si è convertito al culto della Big Apple.
Emilio è al terzo anno di dottorato. Mi guarda con un briciolo di sufficienza, come il soldato prossimo al congedo guarda la “spina”. 

Sto per illudermi che ho di meglio da fare che passare la giornata con lui, e rifiutare il suo invito a pranzo, quando tira fuori la sua arma segreta:

 “A pranzo ci raggiunge Alessia, una mia amica in visita dall'Italia”. 

Alessia. L’accento emiliano del collega fa suonare questo nome (che mi è sempre piaciuto) ancora più sinuoso del solito.  Quelle due esse emiliane mi evocano curve voluttuose (effetti secondari del jet lag, suppongo). 

Vada per il pranzo. L’aspettiamo fuori dal bar. Finalmente arriva, con passo veloce ma non trafelata. E’ carina, sorridente e ITALIANA. 

“Ciao”. 

Sorriso, e sguardo leggermente miope.  La guardo, come un tossico già  in crisi d’astinenza da sorrisi e dolcezze mediterranee. La voglio. 

Pomeriggio in giro, noi tre a spasso sulla luna. Per capire Manhattan, bisogna camminare. Tutti camminano nello stesso modo: passo molto svelto, sguardo fisso, l’aria di colui che sa dove va e ha fretta di arrivare. Tutto questo per scoraggiare postulanti e potenziali aggressori E’ l’antitesi della “passeggiata”: concetto mediterraneo tollerabile (addirittura ostentabile) solo in zone ben delimitate della città. 

Emilio cammina veloce insieme a me. Dopo pochi minuti ci rendiamo conto che Alessia, rimasta indietro, e PASSEGGIA. Cammina lentamente, si guarda intorno, sorride e non si cura di noi. La sua andatura graziosa ci conquista. Adesso passeggiamo tutti insieme. La femmina al centro, i maschi che si atteggiano a guardie del corpo.  

Broadway mi ricorda un film di Fellini, pieno di umanità estremamente varia, che sembra mettersi in scena in permanenza. I suoni principali sono il “boom boom” degli stereo da spalla e i clacson dei taxi. La gente cammina rapida, quasi a tempo di “boom boom”. Tutte le facce sembrano voler raccontare storie. Anche chi sta visibilmente male sembra “fiero di essere americano”, come dice Reagan. Mi dico che la timidezza e la riservatezza non sembrano essere virtù locali.

A forza di camminare, siamo arrivati a Battery Park, limite sud di Manhattan. Le Torri Gemelle ricordano la mascella quadrata del dolicocefalo biondo seduto accanto a noi. Quel mare grigio mi ricorda un altro mare, noto e accogliente, dove ho lasciato una sporta di sensazioni e piaceri senza rischi.

Dov'è Alessia? Mi rendo conto che io ed Emilio l’abbiamo ignorata per tutta la passeggiata, immersi nelle nostre conversazioni da maschi in trasferta. Mi sento improvvisamente stupido: ho ignorato una donna che mi attrae. 
Non sono sorpreso di me stesso, perché conosco bene la mia timidezza e il mio cupio dissolvi in materia di rapporti con l’altro sesso.  Però  ho giurato che nella mia nuova vita oltreoceano riconcilierò il paradosso della mia forte passionalità con la mia patologica timidezza.  

Lei è a pochi passi e mi guarda con un piccolo sorriso. Prima che io apra bocca per vomitare goffe scuse, spara senza esitazioni: 

“Se ti va, domani potremmo andare insieme in gita sull'Hudson River”.
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Quello che avrei voluto dire io. Quello che avrei dovuto dire io.
Rientro nell'antro del Lower East Side e trovo il coinquilino indiano che stira camicie immacolate. Si atteggia a futuro Warren Buffett raccontandomi il suo nuovo job a Wall Street. E' sveglio, farà i soldi. E' ciò che vuole. 

Ceno con l’altro coinquilino, texano (quello del sesso rumoroso in casa). Chili con carne, birra, biliardo e allegra disperazione (mia) quando mi rendo conto che il tizio parla e pensa come uno Schwarzenegger senza muscoli.  

Perché sono venuto a NY? Boh. Forse per incontrare Alessia.

*Domenica*

Apro gli occhi. L’indiano in mutande canta “Thriller” e stira di nuovo. Dalla stanza del texano esce una specie di scheletro femmina coi piedi sporchi, piercings dappertutto e unghie inesplorate. 

Penso ai miei calzini da napoletano, ancora ben piegati nella valigia. Penso al mio tagliaunghie in bagno, probabilmente terrorizzato alla vista delle unghie di quella là. Poi, penso ad Alessia. E' oggi che la vedo. Sarà la mia fatina sorridente in un mare di bruttezza (sono un coglione immaginifico...). 

Eccola. Emilio l’ha accompagnata fino all'imbarcadero. Lui mi guarda di traverso. Alessia non è la sua ragazza, né una ex, per quanto ne so. Solo una vecchia amica. Pero’ credo che lui sia rimasto stupito e forse un briciolo ingelosito dall'invito che ieri Alessia mi ha rivolto. 

Argino per un attimo le mie seghe mentali ed riesco ad improvvisare un mezzo sorriso per Alessia. Ci imbarchiamo. 
Cosa fai qui, ti piace, conti restare, invece tu, sei fidanzata, cosa vuoi fare da grande, che clima del cazzo a Modena, ecc, ecc, ecc. La mia conversazione procede in automatico. Parlo, ma non so cosa sto dicendo e non capisco le risposte. 
Giuro che non lo faccio per superficialità, disinteresse o supponenza. Semplicemente, succede che i sensi prendono il sopravvento. L’attrazione li affina, facendomi percepire (o meglio immaginare) l’odore della sua pelle da un metro di distanza e scrutare ossessivamente una piccolissima goccia di sudore sul suo collo attraente. 

Parla con un ritmo strano, cantilenante. Sguardo miope, quasi sognante. Attraente, credo accogliente, ma un pelino distante. 

Controllata.

La guardo, le parlo, la immagino, la fiuto. Non la bacio.
Una lunga serata, con fiumi di parole che cercano di erodere la stupida barriera di timidezza (mia) che separa i nostri desideri. 
Siamo al Winter Garden, uno dei posti che amo di più a Manhattan. Ai piedi delle Torri,  sotto un tetto di vetro, quelle stupide palme sembrano chiedermi perché non l’ho ancora baciata. 

Siamo seduti, vicini. La sua nuca, il suo collo. Gira leggermente la testa. Mi trovo i suoi occhi immersi nei miei. Ci guardiamo cosi da vicino che ho la sensazione di essere entrato in lei, passando dagli occhi. Adesso la bacio perché sono dentro di lei. 
 
Taxi. Buio. Bacio. Ogni volta che mi guarda, con i suoi occhi più scuri del buio, la bacio.

Arrivati, saliamo per le scale. Lei davanti a me. Amo il modo in cui i suoi fianchi ondeggiano ad ogni scalino. 
Adesso, finalmente, tutto è facile e naturale per il timido focoso. 
Adoro come mi guarda mentre sale su di me. Mi impadronisco delle sue natiche mentre mi cavalca. Ne adoro la consistenza, e quel velo di sudore che ci rende vellutati. 

Adesso cominciamo a conoscerci. A sentirci. I corpi risuonano in armonia, ma un pò in sordina. Mi domando perché.
Letto pensile. Un delizioso déjà vu: sale la scala, nuda, e le sue natiche ondeggiano come pochi minuti prima sul pianerottolo. 
Gattona sul letto, per chiudere le imposte. Mentre lo fa, precipito dentro di lei. Le armonie montano, in quella posizione cosi’ potente per il maschio. Mentre penso all'armonia, lei mi gratifica, molto a proposito, con un gemito strano che sembra una specie di cantilena. Bello, e inusuale. 

Adesso mi è più vicina: con quel gemito mi ha dato qualcosa di intimo. Le mie stoccate prendono vigore, cercando di seguire ed esaltare la sua canzone. Pero’ il mio cupio dissolvi è in agguato...

Quando sono prossimo ad esplodere, esaltato dal suo gemito che si fa quasi struggente, mi fermo. Mi viene un dubbio sugli anticoncezionali (siamo carne contro carne). Ma non è per quello che mi sono fermato, e non è neanche perché vorrei continuare per ore a sentire quel gemito mentre la monto... 

Ho voglia di farle l’amore. Fare l’amore a chi, credo, mi sta solo scopando. La cosa mi spaventa. Ancora non lo so, ma mi ci vorranno decenni per vincere quella maledetta paura di dare più di quanto si riceve.

Ricominciamo. Poco dopo, canta di nuovo. Adoro la sua canzone. Mi fermo di nuovo.

Quando non canta, ha l’aria controllata. Sesso educato. E’ questo che mi destabilizza, perché vorrei farle perdere il controllo. 
Mentre elucubro inutilmente, lei prende l’iniziativa di vezzeggiarmi, per poi farmi esplodere nella sua bocca. Santa donna, ha di nuovo sbloccato la situazione al momento giusto. 

 Fuori dal letto, siamo lontani. 

Riparte. Mi manca. La rivedo mesi dopo, e si nega.

New York a piccole dosi e’ euforizzante. Alla lunga, ti brucia il cervello. 

Forse Alessia sarebbe stata come New York. O forse no.

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@marcodobrovich ·
Bella storia, Claudio.
Anche se in buona parte la conoscevo. ...ah, piuttosto, ti saluto Alessia! 🤣
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